The Beat Goes On
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THE BEAT GOES ON

Sulla strada della Beat Generation

 

Elisabetta Antonini: voce, live electronics, composizioni, arrangiamenti

Francesco Bearzatti: sax tenore, clarinetto

Luca Mannutza: pianoforte

Paolino Dalla Porta: contrabbasso

Marcello Di Leonardo: batteria

Candid Records (2014)

 

“Ho ascoltato un fantastico omaggio alla Beat Generation e dire che questa incisione sia meravigliosa è assolutamente riduttivo. Questo è un disco pieno di musicalità, di una solida cognizione dell’era bebop, di una visione del jazz profonda e piena di sentimento”.
Sheila Jordan

 

Presentato a Tokyo e al Jazz Festival di Mumbai, The Beat Goes On è il progetto con cui la cantante compositrice jazz Elisabetta Antonini vince il prestigioso premio Top Jazz della critica come Miglior Nuovo Talento. Ripercorrendo e ricostruendo musicalmente le atmosfere e le strade della Beat Generation, la cantante omaggia poeti come Kerouac, Ginsberg, Corso, icone di un urlo di libertà che arriva forte e chiaro dagli anni ’50 ad oggi, attraverso il jazz, la musica più amata dai Beat.

Distribuito in Europa e negli Stati Uniti, The Beat Goes On presenta per la maggior parte brani originali, tutti scritti dalla Antonini sulle parole e sulle voci dei poeti stessi e vengono commentati nel live da frammenti di registrazioni d’epoca dall’impatto potente e suggestivo. Accanto al materiale originale, si apprezzano rivisitazioni del jazz di Monk, del folk di Bob Dylan e di Joni Mitchell, e trovano spazio sonorità elettroniche e sintetiche, jazz tunes di energico bebop e momenti di improvvisazione collettiva di ampio respiro e ricchi di lirismo.

The Beat Goes On vede accanto alla Antonini alcuni dei grandi nomi del jazz italiani come Francesco Bearzatti (sax tenore), Luca Mannutza (pianoforte), Paolino Dalla Porta (contrabbasso), e Marcello Di Leonardo (batteria). Progetto e formazione danno all’album un respiro internazionale, riconosciuto anche da un nome di spicco come Alan Bates: la sua etichetta Candid Records, che per la prima volta inserisce un’artista italiana nel suo catalogo.

Intervista ad Elisabetta Antonini di Raffaella Ceres

Abbiamo avuto il piacere di intervistarla e la sua lunga e bella chiacchierata ci ha fatto scoprire un amore per la musica e la cultura della beat generation che si è reso concreto grazie al suo originale progetto artistico che non smette di entusiasmare.

Elisabetta Antonini ha presentato recentemente presso l’Auditorium Parco della Musica di Roma, il suo “The Beat Goes On” ed è stato un sold out per una serata dedicata alla musica ed alla letteratura.

Questo aspetto multidisciplinare del lavoro della brava Elisabetta Antonini è il frutto di un’attenta ricerca che l’artista ha compiuto e che, ci permette un ascolto più consapevole del disco stesso.

 

“The Beat goes on” e girerà tutto il mondo! Possiamo iniziare così la nostra intervista? Un album che promette grandi soddisfazioni Elisabetta e che a nostro parere, merita una particolare attenzione.

Come ci si sente ad essere il Miglior Nuovo Talento secondo quanto votato dalla critica nel referendum della rivista Musica Jazz?

Questo premio arriva inaspettato sebbene sperassi che il mio disco suscitasse una discreta attenzione da parte della critica. Mi sorprende abbiano voluto premiare me come Miglior Nuovo Talento ben sapendo quanti giovanissimi virtuosi siano ogni anno in lizza. Voglio quindi considerare la vittoria del Top Jazz come un riconoscimento al mio ruolo di musicista più che di cantante, un premio artistico alla mia creatività, per aver progettato qualcosa che ambisce ad essere di fuori dagli schemi e per aver combinato in modo personale jazz e poesia.

Inoltre, il fatto che la critica abbia incoraggiato un lavoro che si ispira alla poesia, peraltro fortemente suggestiva e inquieta come quella della Beat Generation, mi fa pensare non solo che ci sia ancora un interesse vitale verso il mondo e la cultura beat, ma che sia ben apprezzata l’occasione in cui il jazz si faccia veicolo e canale espressivo di contenuti.

 

Sei la prima artista italiana che l’etichetta inglese, Candid Records, inserisce nel suo catalogo. Come ci si sente?

La collaborazione con Alan Bates è nata sotto una buona stella perché ho spedito a lui e ad un manipolo di produttori stranieri il mio The Beat Goes On, nell’idea che un prodotto di ispirazione letteraria in lingua inglese avrebbe convinto maggiormente all’estero, ma ho fatto questo senza avere alcuna previsione o aspettativa. Quando già ero sul punto di firmare con una etichetta italiana, Alan mi ha chiamata diverse volte attratto dalle soluzioni musicali ed espressive che avevo scelto per il disco di cui voleva conoscere i dettagli, e ha voluto che firmassi con la Candid a tutti i costi, ripagandomi col suo interessamento di tutto lo sforzo non solo creativo che avevo fatto fino a quel momento. Mi sento fortunata ad avere alle spalle un produttore di tale esperienza e lungimiranza, che gode di tanto rispetto nell’ambiente discografico delle etichette indipendenti. Ha prodotto grandissimi artisti e musicisti che ho sempre ammirato. Persino Thelonious Monk ha fatto il suo ultimo disco con la Candid!

 

Parliamo prima un pochino di te e della tua passione per la musica. Cosa ha rappresentato questo tuo percorso di vita e di artista?

Posso dire che se l’istinto verso la musica è stato precoce ed evidente fin da quando ero minuscola, il mio percorso verso una vita da musicista è stato lungo, tormentato e tortuoso. Come tanti altri ho intrapreso degli studi in un altro campo portandoli avanti insieme a quelli musicali, per poi scoprire dopo anni, che non avrei potuto in alcun modo rinunciare alla musica, per nessuna professione al mondo. Questo taglio netto ha contribuito a fare di me una musicista volitiva e determinata, che agisce sotto il segno della ricerca e della concretezza, che vive in maniera totalizzante qualcosa che per lungo tempo ha solo desiderato. La musica mi confronta continuamente con i miei limiti ma al tempo stesso accende uno slancio enorme verso il loro superamento, e questa per me è una condizione di vita assolutamente privilegiata.

 

Perché, secondo te quello della Beat Generation è stato un tempo unico? Credi possa esistere un momento sociale e musicale più contemporaneo in grado di ricalcare quella sensibilità sociale?

Credo che molti dei contenuti dei beat abbiano senso oggi e ci ricordino l’importanza di rifuggire l’omologazione, la globalizzazione, l’appiattimento culturale, la schiavitù verso la società consumistica e narcotizzante, per tornare ad una spontaneità e ad una unicità che ha in se il senso più profondo della libertà e della dignità umana, spesso percepite come destabilizzanti e perciò spaventose. E’ molto diverso il contesto culturale però in cui questi contenuti possono oggi risuonare o nella migliore delle ipotesi sedimentarsi. Sulla scia del movimento controculturale che la Beat Generation ha avviato, i giovani degli anni ’60 erano ormai pronti per una rivoluzione culturale e soprattutto erano uniti nella speranza di poter cambiare il mondo. Oggi siamo approdati ad un individualismo esasperato, non è pensabile sentirsi parte di qualcosa o muoversi con un intento comune. Anche musicalmente si è giunti a fenomeni artistici di grande spessore e valore culturale che spesso si perdono nel mare magnum proposte, affossate da un consumo e da una comunicazione troppo veloci e distratte, che impediscono a mio avviso l’emergere di un movimento di massa di quelle proporzioni.

 

Il tuo disco riunisce anche una bella squadra di artisti del jazz italiano. Come sono nate le diverse collaborazioni? Puoi presentarci i tuoi compagni di viaggio?

I miei compagni di viaggio sono stati accuratamente scelti e volutamente assemblati anche se non avevamo mai lavorato assieme. Luca Mannutza, al pianoforte, è tra di loro l’unico col quale avevo una collaborazione aperta, mentre gli altri, Francesco Bearzatti al sassofono tenore e al clarinetto, Paolino Dalla Porta al contrabbasso e Marcello Di Leonardo alla batteria, sebbene mi fossero noti per il loro approccio creativo e la loro personalità artistica assolutamente inconfondibile, sono stati una felice “prima volta”. Non avevo dubbi sul fatto che si sarebbero lasciati coinvolgere dalle atmosfere di queste poesie beat, cariche di vissuto e così dissacranti, ma mi sono sorpresa per la grande sensibilità che hanno dimostrato nel sintonizzarsi al mood poetico e per l’intensità espressiva del gruppo, oltre che di ciascuno di loro, sebbene non avessero mai suonato quel materiale.

 

Molti dei brani proposti nell’album sono originali e scritti da te. Quanto ti ha impegnato questo progetto, quando compone Elisabetta e cosa vuole raccontare con la sua musica?

La parte creativa è la fase che di questo lavoro mi ha coinvolto maggiormente dal momento che ho dovuto dare una precisa struttura al lavoro, scegliere il materiale poetico, gli inserti audio d’epoca con le voci dei vari beat e decidere come accostare tutto questo alla musica. Questo mi ha permesso di esprimermi totalmente nella scelta dei temi, dei contenuti, delle atmosfere, dei luoghi da evocare, dei personaggi da richiamare, e ha fatto si che molto naturalmente decidessi di scrivere la maggior parte delle tracce del disco per trovare una corrispondenza musicale a questi scorci sulla Beat Generation. E’ stato inoltre inevitabile ma altrettanto creativo, decidere di inserire anche della musica non mia che avesse però un importante valore all’interno del progetto e del mondo dei Beat. Nei miei lavori, sia da interprete che da compositrice, mi muovo sempre con il proposito di suggerire dei mondi, evocare immagini, stati emotivi, accompagnare l’ascoltatore in un viaggio visionario, quasi cinematografico, attraverso le storie e i personaggi che racconto.

 

Cosa ti ha fatto innamorare del jazz e del movimento della Beat Generation?

 Amo il jazz da molto prima di conoscere la Beat Generation, per la libertà stilistica che gli è propria, per il carattere confidenziale, spontaneo, condiviso che ha ogni progetto musicale jazz e per la forza espressiva e l’unicità dei suoi protagonisti, portavoci di un mondo e di un’epoca che mi affascinano incredibilmente.

La Beat Generation arriva molto dopo nel mio percorso, prima dalla lettura di qualche romanzo e poi attraverso un omaggio a Fernanda Pivano, traduttrice, amica e confidente di questi poeti, in cui decisi di accostare della musica ad alcuni passi della produzione beat che mi avevano profondamente colpito. Quando ho deciso di occuparmi di un nuovo progetto discografico ho sentito il richiamo di quelle poesie, il desiderio di riproporle attraverso il mio sguardo, e di congegnare un vero e proprio omaggio a questa pagina di letteratura americana e ai suoi protagonisti tanto leggendari.

 

Il tuo è un lavoro che potremmo definire sperimentale perché contenitore a sua volta di molti linguaggi sperimentali. Dalle tecniche sonore utilizzate, alle poesie dalle quali hai tratto spunto.

Si legge di te che credi nella “consapevolezza dell’uso della tecnologia al servizio del progetto”. Puoi spiegarci?

In questo progetto ogni brano ruota attorno ad un tema rappresentativo del mondo beat e utilizza il materiale sonoro per ricreare la scena, il setting, la storia, il luogo narrato o che io ho immaginato. Utilizzando materiale molto vario sia per contenuto che per forma, ho scelto infatti estratti di conferenze o di reading, poesie o passi di romanzo, mi è stato piuttosto naturale utilizzare diverse sonorità e affidarmi a vari linguaggi stilistici, funzionali ad esprimere al meglio le luci e le atmosfere del materiale poetico. Non sono ferrata in nuove sonorità e non ritengo di aver fatto un lavoro sperimentale perché tutto ciò che ho scritto, cantato e realizzato con i musicisti, è facilmente identificabile in un universo sonoro del presente e del passato. Mi sono affidata alla tecnologia del live eletronics per filtrare la voce e avere una gamma espressiva più ampia per cui a tratti il canto diventa sintetico a tratti estraniante, tutto questo per dare maggiore risalto alle parole.

 

A chi dedichi il tuo album?

Dedico questo album a Jack, Allen, William, Gregory e Lawrence, gli “illuminati”, al loro coraggio, alla loro lungimiranza. “Santi” loro e “la soprannaturale ultra brillante intelligente sensibilità della loro anima”!

 

Prevedi un tour in Italia e all’estero?

Si, ci saranno delle date importanti di presentazione in Italia, prima tra tutte il 19 gennaio all’Auditorium Parco della Musica di Roma, la mia città, e stiamo lavorando per pianificare dei concerti all’estero, grazie anche alla produzione inglese.

 

Hai un pensiero musicale da dedicare a chi ama la tua musica che vorresti condividere con noi?

La musica è strettamente connessa all’esercizio del proprio potenziale creativo, più la si ascolta o la si fa, più si sta bene perché ci si esprime. Vorrei quindi condividere una riflessione provocatorio ma potente della giornalista scrittrice Brenda Ueland in cui da poco mi sono imbattuta: “Perché mai dovremmo utilizzare tutto il nostro potenziale creativo? Perché non vi è nulla che rende le persone così generose, gioiose, audaci e compassionevoli, così indifferenti alla guerra e all’accumulare oggetti e denaro”.

Grazie e buon lavoro!

http://www.06live.it/?p=64050

Roberto Dell'Ava per Tracce di Jazz

“L’idea è nata dopo una serata in cui mi chiesero di rendere omaggio a Fernanda Pivano, traduttrice e amica di molti personaggi chiave del mondo beat – ci dice Elisabetta Antonini: certo, avevo già letto diverse cose, ma in occasione di quello spettacolo ho potuto conoscere meglio questo universo. “

“È un live di ispirazione letteraria, per questo ho inserito le voci dei protagonisti dell’epoca. A volte queste voci sono stranianti, a volte sono di commento, a volte prendono la strada di una fitta conversazione. Un mondo sonoro ispirato a quei luoghi, a quei personaggi”.
Un progetto ambizioso quello di Elisabetta Antonini ma dopo ripetuti ascolti devo dire che è ampiamente centrato. L’album uscirà il 22 settembre ma già da qualche anno Elisabetta porta in concerto questa raccolta di originals e di brani famosi (Horace Silver, Joni Mitchell, Dave Douglas, Bob Dylan e Thelonious Monk).
I musicisti che la accompagnano (Francesco Bearzatti, Luca Mannutza, Paolino Dalla Porta e Marcello Di Leonardo) formano un gruppo sodale e calibrato e nel compact la voce di Elisabetta si interseca alle voce originale dei poeti della beat generation. Leggendo le note di copertina prima dell’ascolto qualche perplessità sull’operazione mi si era affacciato alla mente, invece l’album scorre limpido e omogeneo ed il lavoro di editing è pertinente ed efficace.
I brani, sia quelli composti dalla leader che quelli di Silver, Monk e Douglas, vedono come testi gli scritti di Kerouac, Ginsberg, Corso e Borrough e la commistione appare particolarmente felice. On the Road, For Miles e Requiem for Charlie Parker sono dei piccoli gioielli che ad ogni passaggio nel lettore sprigionano umori nuovi e timbri e colori peculiari ad un album di forte ispirazione letteraria.
Un ottimo lavoro di selezione del materiale, di arrangiamento e di utilizzo della tecnologia. Nessun sentore di tributo, ma una visione del tutto personale, irrobustita dalla presenza di musicisti di valore assoluto.
Il compact esce per l’etichetta Candid Records di Alan Bates ed Elisabetta Antonini è la prima musicista italiana ad incidere per lui. Sicuramente tra i migliori album italiani dell’anno.

Alceste Ayroldi per JazzItalia

C’è tutto. C’è tutta la memoria di un periodo storico, artistico, culturale inimitabile: quello della Beat Generation. E c’è con anche i protagonisti, alcuni di quelli che segnarono gli anni Cinquanta e Sessanta degli Stati Uniti e di buona parte dei paesi del mondo che avevano avuto il buon senso di capire il cambiamento. Elisabetta Antonini, nelle sue annotazioni nel booklet interno (le liner notes sono firmate da Sheila Jordan, mai sentita così entusiasta), parla di “un’eredità inestimabile per la gente della sua generazione”. Vero, verissimo e si vede quanto la cantante e compositrice italiana abbia studiato, ricercato e lavorato con coscienza filologica e particolare acume, costruendo un percorso di pregio artistico e culturale. Lo fa già dalla scelta dei compagni di viaggio, tutti stretti intorno al progetto, musicisti che non fanno la loro apparizione a buon mercato: Francesco Bearzatti che si alterna al sassofono tenore e al clarinetto a seconda della voce da fare, ora bollente e carezzevole, ora acuta e schiaffeggiante; Luca Mannutza apre e chiude le tessiture e infiocchetta degli assolo netti e puri; Paolo Dalla Porta detta i tempi e costruisce armonie ed espressioni illuminanti; Marcello Di Leonardo sottolinea gli scambi, inventa soluzioni ritmiche cangianti anche nei momenti più soul del disco. La leader è impeccabile: la sua voce è espressionistica, frizzante, torrida e perfettamente allineata al controcanto virtuale di Jack Kerouac in “Cookin’At The Continental” o di Gregory Corso in “Requiem For Bird Charlie Parker“, così come quando sono le sue note vocalizzate a fare da contraltare alla sempre stupefacente “Howl!” di Allen Ginsberg.

L’idea di lasciar suonare le voci dei protagonisti della Beat Generation è vincente, alla stregua delle composizioni della Antonini, che recupera il suono di quegli anni lasciandolo travolgere dalla sua freschezza espositiva, liberandolo dalla inevitabile ruggine con scelte ritmico-armoniche pronte, immediate ed effervescenti. Lascia nelle mani di cinque eccellenze altrettante composizioni: “Cookin’ At The Continental” di Horace Silver, “Orujo” di Dave Douglas, “Woodstock” di Joni Mitchell, “Well You Needn’t” di Thelonious Monk e una delle canzoni simbolo degli anni Sessanta, “Blowin’ In The Wind” di Bob Dylan. Il resto è tutta farina del suo sacco, così come gli arrangiamenti ottimamente curati che non lasciano nulla al caso, ma sicuramente si affidano alla fervente immaginazione e creatività della Antonini.

Un disco, un progetto, un lavoro di ricerca e di passione: merce rara di questi tempi.

Alceste Ayroldi per Jazzitalia, 26 Ottobre 2014

http://www.jazzitalia.net/recensioni/thebeatsgoeson

JazzItalia

Top Jazz 2014
I vincitori del referendum di Musica Jazz


DISCO DELL’ANNO –
Dopo il ripristino delle classiche nove categorie che premiano dischi, musicisti, gruppi e nuovi talenti del jazz italiano e internazionale più la miglior ristampa, il referendum della critica indetto da Musica Jazz si ripresenta al consueto appuntamento di fine anno ma, questa volta, con un mese d’anticipo e un premio in più.

La nuova edizione del Top Jazz inaugura così il settantunesimo anno di vita di Musica Jazz, il più autorevole mensile di jazz del nostro Paese, una delle riviste più longeve d’Italia che dal 1945 è fedele compagna degli appassionati di jazz e la più antica al mondo a essere ancora presente in edicola dopo Down Beat.

Ecco quindi i nomi dei vincitori del Top Jazz 2014 per il jazz italiano:

(premio Arrigo Polillo)
«Joy In Spite Of Everything» (ECM)
Stefano Bollani

MUSICISTA DELL’ANNO
(premio Pino Candini)
Franco D’Andrea

FORMAZIONE DELL’ANNO
Franco D’Andrea Sextet

MIGLIOR NUOVO TALENTO
(premio Gian Mario Maletto)
Elisabetta Antonini

UNA VITA PER IL JAZZ
(premio Gian Carlo Testoni)
Enrico Pieranunzi

Franco D’Andrea, grande maestro del jazz, conquista ancora una volta la vetta delle classifiche, sia come musicista dell’anno sia come leader del miglior gruppo italiano, quel sestetto che da tempo suscita su disco e dal vivo l’ammirazione del pubblico. 

Stefano Bollani
, la cui popolarità, anche all’esterno del mercato del jazz, sembra non conoscere confini, ottiene il premio Arrigo Polillo per il disco dell’anno grazie alla riuscita collaborazione con due grossi calibri statunitensi come Mark Turner e Bill Frisell che si inseriscono a meraviglia nel cosiddetto Danish Trio completato da Jesper Bodilsen e Morten Lund. 


Elisabetta Antonini
 ha invece conseguito l’ambita vittoria nella categoria riservata al miglior nuovo talento, da quest’anno associata al nome dell’indimenticabile Gian Mario Maletto. Elisabetta è una cantante da tempo già nota agli appassionati ma della quale si sentirà parlare molto nei prossimi mesi.

Da quest’anno, in ricordo del suo fondatore Gian Carlo Testoni, Musica Jazz dedicherà il premio speciale Una vita per il jazz alle grandi eccellenze del jazz italiano. Per il 2014 la redazione ha scelto Enrico Pieranunzi, uno dei più importanti pianisti in attività e che non ha bisogno di presentazioni.

Per festeggiare al meglio i vincitori del referendum, come da ormai consolidata tradizione, Musica Jazz dà appuntamento al suo pubblico al concerto che si terrà l’1 gennaio 2015 alle ore 21.30 presso il Teatro Mancinelli di Orvieto, a chiusura di Umbria Jazz Winter con la cui preziosa collaborazione sarà realizzato. In tale circostanza avrà luogo la premiazione ufficiale dei vincitori nelle categorie riservate al jazz italiano.

Il concerto del Top Jazz 2014 vedrà la partecipazione di Franco D’Andrea, Enrico Pieranunzi ed Elisabetta Antonini più alcuni ospiti speciali.

Sul numero di dicembre 2014 sono pubblicati i vincitori di tutte le categorie sia per il jazz italiano sia per quello internazionale, mentre, come d’uso, le classifiche generali potranno essere consultate sul numero di gennaio.

I vincitori del referendum, italiani e internazionali, potranno essere ascoltati nel compact disc fuori commercio dedicato al Top Jazz 2014 comprendente anche brani inediti, prodotto con la collaborazione di musicisti e case discografiche e allegato a Musica Jazz di gennaio 2015.

http://www.jazzitalia.net/recensioni/thebeatsgoeson

Rivista Donna

Elisabetta Antonini
il jazz è la mia evoluzione e rivoluzione personale

Elisabetta Antonini è cantante e band leader, arrangiatrice e compositrice, studia vocalità jazz, approfondisce lo stile e il linguaggio jazzistico negli Stati Uniti e in Italia con le figure di maggior spicco internazionale. Premiata dalla critica nel referendum annuale indetto dalla rivista Musica Jazz, vince il Top Jazz 2014 come Miglior Nuovo Talento e si posiziona al quarto posto come Miglior Album Dell’Anno. Prima artista italiana a firmare con la prestigiosa etichetta inglese Candid, prodotta dallo storico discografico Alan Bates, intraprende un’intensa attività concertistica che la porta a collaborare con nomi come Paul McCandless, Kenny Wheeler, Enrico Pieranunzi, Paolo Damiani, Vassilis Tsabropoulos, Javier Girotto, Paolo Fresu. Il jazz è entrato nella sua vita improvvisamente e, come un grande amore ha sconvolto la sua esistenza. Ha un legame speciale con la Sardegna, sia per le sue origini, sia per una bella esperienza che l’ha vista insegnante per ben nove anni a Nuoro al Jazz, il Festival/Workshop organizzato da Paolo Fresu. Anni in cui  si è legata alla Sardegna in modo speciale e ha avuto  l’occasione di coltivare amicizie profonde e forti collaborazioni, non ultima quella con l’arpista jazz Marcella Carboni con cui condivide il progetto Nuance che porta in tutto il mondo dal 2009.

RivistaDonna l’ha incontrata per voi…

Elisabetta, quando hai capito di voler diventare una cantante Jazz?

Il jazz è entrato nella mia vita improvvisamente, per caso, studiando canto durante il periodo universitario, e come un grande amore ha cambiato tutto, sconvolgendo le mie abitudini, portandomi nuovi amici, luoghi e serate, un mondo completamente diverso da quello al quale appartenevo. Eppure scegliere di essere cantante jazz come mestiere non è stato immediato, anzi, ha richiesto anni di gestazione e la scelta di abbandonare un’altra strada professionale, che oggi senza rimpianti guardo con tenerezza. Anzichè scegliere di diventare cantante, però, sono sicura di aver scelto innanzitutto di essere jazzista, e di vivere il jazz come il mezzo attraverso il quale compiere la mia evoluzione e rivoluzione personale.

La tua formazione e l’esperienza negli Stati Uniti. Cosa ricordi di quegli anni?

New York è la mecca del jazz e, con ogni probabilità, la culla di ogni nuova tendenza musicale. Quello che ricordo è che ho vissuto quel periodo in uno stato di costante esaltazione per tutti gli stimoli che ricevevo anche solo osservando le persone per strada, artisti e non, tutti determinati a realizzare il proprio sogno. Ho imparato molto dal loro adagio “volere è potere”, e ritornando in Italia ho messo nella mia valigia un po’ di quella concretezza e di quella folle onnipotenza tutta americana.

La prima volta sul palco che emozioni…

L’emozione che si prova sul palco è il momento più alto e significativo della vita di un artista, che ripaga delle ore passate a studiare nel cercare se stessi attraverso la musica. Il magnetismo che si crea con il pubblico, la comunicazione profonda ma invisibile con i musicisti, la totale esposizione di se nel mostrarsi e raccontarsi, senza filtri, attraverso le canzoni, non finiranno mai di emozionare, neanche dopo anni di esperienza. La mia prima volta è stato da molto piccola e ricordo un’emozione soverchiante che con molta probabilità non mi ha aiutato a dare il meglio. Nonostante la mia timidezza sentivo già un po’ mio però quel modo di farmi ascoltare dalle persone e di suscitare emozioni attraverso la voce.

Hai vinto il premio Top Jazz 2014. Cosa rappresenta per te questo premio?

Il premio che ho vinto è stato grazie al mio progetto The Beat Goes On, un omaggio ai poeti americani come Kerouac e Ginsberg, noti come la Beat Generation, un lavoro di ispirazione letteraria che utilizza il jazz e le sue contaminazioni come colonna sonora di un viaggio immaginario nell’America giovanile, anticonvenzionale e controculturale degli anni ’50. E’ incredibile che i giornalisti e la critica di settore abbiano voluto votare me come Migliore Talento e questo progetto come quarto Miglior Disco dell’Anno, nonostante io sia una specie di outsider, poco vicina al jazz tradizionale e lontana dal virtuosismo vocale. Sono felice per questo cambio di rotta e per il significato che questo premio ha per tutte le cantanti che come me cercano di essere innanzitutto musiciste. Il premio è e rimarrà un riconoscimento importantissimo nei confronti di ciò che ho sempre creduto importante nel mio intento di fare musica: trovare la propria “voce”.

Essere una donna nel tuo lavoro rappresenta un vantaggio o un ostacolo per la carriera?

Mi fanno spesso questa domanda ed è difficile dare una risposta senza mettersi nei guai. Posso dire che i problemi nascono non tanto per il fatto di essere donna, ma donna cantante e, ancora di più, musicista e meno vicina al clichè tradizionale del cantante entertainer. La voce crea delle aspettative nell’immaginario collettivo, e se non c’è corrispondenza, possono nascere notevoli difficoltà e emergere strade sbarrate. Diverso è il destino delle donne strumentiste che a volte fanno carriere meravigliose proprio perché sono così rare. Tuttavia, la musica al femminile, suonata o cantata, tranne qualche eccezione, viene presa meno sul serio, e se anche trova una sua collocazione, è sempre considerata meno interessante e meno di valore di quella eseguita dai nostri colleghi. Tutto ciò ha una ragione storica e socioculturale, perciò man mano che sempre più brave musiciste aumenteranno la quota rosa nel mondo del jazz, assisteremo ad un miglioramento.

“The Beat Goes On”, voci, atmosfere, un omaggio alla Beat Generation in cui ogni brano è firmato cantato e arrangiato da te. Come è nata l’idea di questo progetto?

Il progetto così pensato nasce in seno ad una serata dedicata a Fernanda Pivano, organizzata dall’Associazione Muovileidee per la Rassegna Da donne a Donna. La Pivano è stata traduttrice e ancora di più amica e confidente dei Beat. Ha sposato il senso di libertà, di parola, di costume, di pensiero dei poeti Beat, ha condiviso la loro lotta contro la sopraffazione, l’ipocrisia, la logica del profitto. Grazie a questa grande figura della cultura italiana, ho recuperato un patrimonio poetico e letterario ricco di significato ancora oggi, scoprendo peraltro che i Beat erano appassionati di jazz e grandi frequentatori non solo degli ambienti underground dei musicisti, ma dediti a reading letterari in cui si facevano accompagnare da musicisti jazz. Così è emersa forte l’idea di volermi dedicare ad un concept album che raccontasse il mondo della Beat Generation attraverso i miei occhi, ed è cominciato un periodo di grande fermento e creatività, di immersione totale nel mondo Beat per poter scrivere le canzoni sulle loro poesie.

Se la musica jazz fosse un colore sarebbe…

A Kind of Blue, una specie di blu, per citare il titolo del famoso album di Miles Davis, icona del jazz. Un colore pieno di mistero, caldo e avvolgente, profondo e intenso.

Sarai tra i protagonisti a Cagliari di Forma e poesia nel Jazz. Cosa provi a portare i tuoi brani nella nostra isola?

Ho un legame speciale con la Sardegna, sia per via delle mie origini, sia per una bella esperienza che ho avuto modo di fare insegnando per ben nove anni a Nuoro Jazz, il Festival/Workshop organizzato al tempo da Paolo Fresu. Paolo è un grande catalizzatore e divulgatore della cultura sarda, ha un bellissimo modo di attirare musicisti, appassionati o semplici curiosi che affollano in massa le sue iniziative e di proporre modalità stimolanti e originali per far conoscere la ricchezza della tradizione musicale Sarda. Quegli anni di seminario sono stati molti coinvolgenti per me e mi hanno fatto affezionare alla Sardegna in modo speciale, mi hanno dato l’occasione di intessere amicizie profonde e forti collaborazioni, non ultima quella con l’arpista jazz Marcella Carboni con cui condivido il progetto Nuance che portiamo in tutto il mondo dal 2009.

L’invito al Festival Forma e Poesia mi onora profondamente sia per l’ottima direzione artistica che ne fa da sempre Nicola Spiga, sia perché il pubblico sardo è un pubblico colto, che ama la musica anche quando non è addetto ai lavori. Ci sono quindi delle ottime premesse per la presentazione di questo mio progetto e molta curiosità da parte mia.

Tornerai in Sardegna?

Mi auguro di tornare presto, ma senza dubbio avrò l’occasione nel futuro prossimo di presentare un nuovo disco del progetto Arpa&Voce Nuance sul quale stiamo lavorando con l’arpista jazz cagliaritana Marcella Carboni.

Progetti futuri?

Al momento è appena uscito “AH!” con l’ensemble Pollock Project, di e con Marco Testoni e Simone Salza, un progetto multimediale che coniuga arti visive, minimalismo e improvvisazione utilizzando la voce e l’elettronica, sassofono e clarinetto e caisa drums, una percussione poco conosciuta ma dal colore suggestivo. Stiamo partendo con la promozione di questo disco che ci vedrà presentarlo in varie città italiane in attesa di portarlo all’estero.

Intervista di Vincenzo Fugaldi

Artisti non ci si improvvisa, lo si diventa dopo anni di studio, di pratica, di totale impegno. È questa la lezione che si evince dalla tua biografia artistica, Elisabetta. Lo confermi?
Diciamo che artisti si cerca di essere… è una ricerca che dura tutta una vita, e forse non ci si arriva mai. Esprimersi in modo artistico significa riuscire a condensare qualcosa di originale in un linguaggio accessibile agli altri ed emotivamente percepibile. È un obiettivo bellissimo e lontano, che però io mi sono posta. Oggi più che artista mi ritengo appassionata, il mio studio dura da anni e penso non finirà mai, e quello che mi motiva di più è proprio l’amore per la musica in genere e per il jazz in particolare, un universo così articolato e complesso, inesauribile. Lo studio è come un allenamento atletico, perché bisogna conoscere il proprio strumento ed esercitarlo, ma non è solo legato alla specificità dello strumento e della tecnica. Significa anche fare un certo tipo di vita, cercare un equilibrio, avere uno sguardo curioso verso il mondo, abitudini che ti permettano di fare questo lavoro per anni – perché è logorante, consuma – e mantenerti sempre motivato. Significa riuscire a prendere dalle persone che incontri, dai dischi che ascolti, qualcosa da elaborare per un progetto, da portare all’interno di una collaborazione, una sfida sempre aperta. Oggi un cantante non può permettersi di studiare solo la voce, deve conoscere la musica e almeno uno strumento, perché questo gli permette di comunicare con i musicisti, avere credibilità, essere originale. In sostanza deve arrangiare, comporre, costruire la propria proposta. Qualcuno si astiene, probabilmente non ha l’ambizione di scrivere la propria musica, ma in ogni caso c’è tanta ricerca dietro, anche quando si è solo interpreti.

 

Una delle caratteristiche della tua vocalità è la raffinatezza, il gusto. Qual è secondo te il segreto di questa qualità, è innata o la si può acquisire?
Secondo me è un po’ come avere gli occhi azzurri o gli occhi blu. C’è chi tira fuori l’energia con un modo di vivere la musica molto sanguigno, molto viscerale. C’è chi tira fuori il virtuosismo, perché ha delle capacità straordinarie. E c’è invece chi si esprime meglio attraverso la capacità compositiva. Il fatto di cercare un certo tipo di estetica curata, in cui ritrovare un certo gusto, equilibrio, raffinatezza, è qualcosa che in parte si ha e in parte si vuole. Io della musica apprezzo proprio la raffinatezza, il gusto. Potrei elencarti decine di musicisti, ma alla fine quello che mi affascina è proprio il loro gusto. L’elemento tecnico è importante, ma prediligo l’artista che riesce a essere personale e avere un suo carattere senza aggressività, con equilibrio ed eleganza.

Due cantanti italiane hanno giocato un ruolo fondamentale nella tua formazione, Cinzia Spata e Maria Pia De Vito. Vuoi soffermarti sui loro apporti alla tua crescita artistica?
Sono contenta di questa domanda. Cinzia è un’insegnante appassionata, la prima persona che mi ha fatto capire che la musica poteva essere una cosa molto seria, un lavoro importante che si sceglie di fare impegnandosi, con metodo. Mi ha fatto comprendere che potevo tirare fuori tantissimo dalle mie prime esperienze di studio. Ha saputo farmi intravedere una strada possibile che perseguita con serietà e con grande determinazione poteva portarmi lontano. Lei stessa, come modello musicale, è stata fondamentale, perché faceva e ascoltava un tipo di jazz che ha dato un’impronta al mio gusto, anche se ritengo di fare cose molto diverse da lei. In quel periodo Cinzia suonava un jazz moderno che andava da una fusion raffinata alla Oregon, a cose più afroamericane; riusciva a trovare sempre brani originalissimi di compositori come Kenny Wheeler, per fare un nome. Un jazz europeo contaminato con atmosfere fusion, e sempre con bravi musicisti. Quando ho cominciato a studiare con lei, circa diciassette anni fa, a Roma c’erano molti concerti, quindi ho avuto l’opportunità di conoscere una vastità di repertorio jazzistico che forse se avessi studiato con qualcun altro non avrei potuto accostare. Cinzia e Maria Pia sono state importanti anche per il loro esempio artistico, gli stimoli che mi hanno dato, il fatto che erano considerate delle musiciste e avevano un rapporto con gli altri musicisti molto serio, di grande leadership, e conoscevano bene la musica. Tutto questo ha fatto nascere una generazione di cantanti dalla preparazione più ampia. Grazie a Cinzia ho ascoltato anche dischi meravigliosi, e frequentato seminari con docenti americani, una cosa che prima non si era fatta mai. Ho frequentate le due insegnanti in momenti diversi, e in entrambi ero molto ricettiva, mentre in altri periodi ho dovuto trascurare lo studio della musica per seguire l’università. Quando poi ho ripreso, proprio con Maria Pia, è stato di nuovo il momento dell’impegno, del massimo studio. Entrambe sono molto esigenti, ti confrontano con i tuoi limiti, e questo è utile. La differenza è che mentre Cinzia è un po’ “chioccia”, per cui vuole che si stabilisca un rapporto diciamo di benevola subordinazione, Maria Pia richiede che cammini con le tue gambe fin da subito, e quindi punta molto sul fatto di sviluppare la tua personalità, la tua specificità, il tuo suono, il tuo repertorio. In questo ovviamente ti lascia da sola, non può essere lei ad aiutarti a scegliere i pezzi, devi sceglierli da te. Però in tutto quello che è avvenuto prima mi ha dato tantissimo, sono stata forse una delle ultime allieve a fare un percorso didattico individuale con lei, che poi ha smesso di insegnare individualmente e si limita a tenere i seminari e insegnare al Conservatorio. Maria Pia è un esempio, in tutti questi anni ha realizzato tanti dischi uno diverso dall’altro, è un’artista in continua ricerca, che ha colto delle sfide incredibili riuscendo sempre a tirare fuori qualcosa di valido, e anche quando si impegna in un progetto che non abbraccio completamente, non posso che apprezzare comunque la qualità di ciò che fa, la coerenza con cui si sceglie i collaboratori, la sua capacità di andare sempre in direzioni nuove, di darsi dei nuovi orizzonti, con organici sorprendenti e musicisti del livello di John Taylor e Ralph Towner. Maria Pia poi è stata generosissima con me, perché ci siamo sempre tenute in contatto, e a un certo punto mi ha invitato a insegnare con lei a Nuoro Jazz, un seminario che avevo frequentato anni prima da allieva. Così dal 2005 a oggi mi trovo al suo fianco in questa esperienza importante, con Paolo Fresu, Bruno Tommaso e tanti altri. Per me è stato un grande riconoscimento.

Nel jazz italiano e internazionale quali sono stati, e sono, i tuoi riferimenti?
Passo da fasi in cui amo le cose più tradizionali ad altre. Quando studiavo con Cinzia, come dicevo prima, ho conosciuto attraverso lei il jazz europeo, tutto il versante Ecm, in un periodo in cui non era semplicissimo trovare i dischi, e andavo a casa degli amici per registrarli. Così ho ascoltato Kenny Wheeler, Norma Winstone, quel jazz europeo che è stata una scuola fondamentale. A me piace comunque il minimalismo, anche in musica contemporanea, lo si sente dai miei dischi, con organici ridotti, arpa e voce, o un trio senza batteria. Poi ascolto anche jazz americano, sempre in casa Ecm, con quel tipo di estetica, come ad esempio un bellissimo concerto del trio di Tord Gustavsen a Locri. Grazie a Cinzia ho conosciuto la tradizione sia vocale che strumentale: ci ha fatto ascoltare sin da subito il jazz strumentale, che molti non conoscevano, perché i cantanti spesso ascoltano solo altri cantanti. Forse la cantante che prendo come riferimento, che ho ascoltato tantissimo e che incontra il mio gusto e trovo veramente impareggiabile è Carmen Mcrae. Tra tutte, nonostante io abbia ascoltato a lungo Ella Fitzgerald, è quella che in assoluto mi tocca di più. Poi ovviamente Betty Carter… Con Maria Pia, che faceva tutte quelle cose particolari, eclettiche, ho poi cominciato ad apprezzare il versante fusion-mediterraneo, quindi tutta la produzione Egea, che trovo ancora oggi veramente illuminante.

Sei affascinata solo dal jazz, o anche da altre musiche?
Sicuramente mi affascinano tante altre musiche. Non sono, e me ne dispiace, una conoscitrice della world music, ma penso che sarà una di quelle cose che molto presto dovrò ascoltare. Quella che cerco di ascoltare più spesso che posso è la musica del Novecento, che mi piace tantissimo. Ciò che prediligo dopo il jazz è la musica da Debussy in poi, conosco anche l’Ottocento ma purtroppo poco quello che viene prima, anche del repertorio cantato, liederistico, operistico, barocco, perché non ho una formazione classica, e quindi sto cominciando solo adesso ad avvicinarmi. Però in generale di quel mondo preferisco la musica non cantata.

Facciamo una breve panoramica sulla tua discografia, in particolare su «Un minuto dopo» (Dodicilune, 2009), «Women Next Door» (2011) e «Nuance» (Blue Serge, 2011).
Il primo è costruito intorno alle composizioni di Enrico Rava, che avrebbe dovuto partecipare al disco ma non era disponibile per la registrazione, ma mi ha molto incoraggiata. Inizialmente avrebbe dovuto intitolarsi Certi angoli segreti. Per la presenza di Paul McCandless, il taglio delle musiche invece è stato più cameristico rispetto allo sviluppo che avrebbe avuto in presenza di Rava. Il secondo non lo considero un disco, ma più che altro un biglietto da visita; viene da un amore per un certo tipo di jazz anni Cinquanta, legato soprattutto alla sonorità di George Shearing, che aveva un quintetto senza batteria e con il vibrafono, e di Nat King Cole. Ho trascritto degli arrangiamenti originali che lo stesso Shearing aveva fatto di alcuni standard riadattando per un piccolo gruppo arrangiamenti storici di Ellington e di altri. È un omaggio a una tradizione e alla sonorità di quel periodo, un jazz poco afroamericano, ma molto ben confezionato, con brani equilibratissimi, e con delle intro meravigliose. Shearing e Cole avevano un’articolazione basata sul gusto, che non puntava sul solismo, anche se le improvvisazioni erano eccezionali, ma c’era un grande lavoro sul progetto, sull’elemento architettonico della musica. Pur amando l’improvvisazione, il free o le cose poco confezionate non mi interessano. Un’altra cosa da dire di questo disco è che è composto tutto da donne (tranne il vibrafonista), da cui il titolo. «Nuance» invece nasce perché l’arpista Marcella Carboni mi ha chiamato per dirmi che avrebbe suonato a Nuoro Jazz, dove insegnavo, e mi ha proposto di fare una serata insieme. L’arpa è uno strumento ambivalente, da una parte affascinante, con questo suono bellissimo, avvolgente, magico, ma non è di uno strumento di immediato impiego nel jazz. Bisogna ricrearsi tutto, e quindi ci siamo costruite ogni brano, dopo una accurata selezione. Da parte mia c’è stata una serie di proposte, e da parte di Marcella la pazienza di rielaborarle per lo strumento, poi abbiamo lavorato insieme per confezionarle. Abbiamo pensato che poteva essere interessante usare una loop station. Nel tempo siamo poi rimaste legate a una serie di brani che facciamo sempre, e poi via via abbiamo arricchito il repertorio. Nel disco ci sono cose che raramente facciamo dal vivo, perché ci piace tirar fuori anche altri colori del duo che sul disco non abbiamo messo. Ed è un progetto che vede come ospite Javier Girotto, che dà un ottimo apporto al nostro piccolo organico.

Sei un’affermata didatta di canto jazz. Come concepisci – non ti chiedo di svelarci i tuoi segreti – la didattica del jazz?
Non ho alcun segreto… Il jazz è una musica piuttosto impalpabile, quindi nella didattica ognuno sceglie la propria direzione. Io ho avuto l’impostazione di Cinzia che è una persona molto strutturata e precisa, e quindi sono un’insegnante esigente, ma generosa. Lavoro moltissimo sul repertorio e sull’improvvisazione. Sono meno interessata a un lavoro tecnico sulla voce, semplicemente perché sento che quello che io posso dare di più è sull’altro versante. La didattica è una cosa molto appassionante, che prende tante energie ma dà anche tanti stimoli e soddisfazioni. È un grande impegno con sé stessi che obbliga a studiare sempre, una costante chiamata all’aggiornamento e al rigore. Quindi io continuo a studiare, passo dei periodi in cui studio con gli allievi le cose che insegno. La didattica mi aiuta a crescere.

La tua attività ti lascia tempo per fare anche altro? Quali sono i tuoi interessi al di là della musica?
Tanti. Una delle cose che amo di più è sicuramente il cinema, Truffaut è uno dei miei registi preferiti. Quel mondo, quel tipo di linguaggio mi ha affascinato tantissimo, riuscire a capire la prospettiva di un regista, l’estetica, il senso, i metasignificati. Le questioni tecniche mi affascinano tantissimo. Mi piace molto anche il dietro le quinte. Ricevo molto spesso in regalo biografie di registi, Bergman, Truffaut, Allen. E mi piace anche tutto il filone del cinema d’essai, da Aki Kaurismaki con le sue ambientazioni nordeuropee, e i musical degli anni Quaranta e Cinquanta. E poi amo prendermi i miei spazi, stare in mezzo alla natura e fare grandi passeggiate in montagna, e rivedere i film che conosco a memoria (è una cosa che faccio puntualmente, è come riassaggiare un sapore).

Vittorio di Music Zoom

La Beat Generation e l´Italia, è un connubio che continua dalla fine degli anni cinquanta, quando la traduttrice e scrittrice Fernanda Pivano fece conoscere le opere tradotte di quei personaggi come Jack Kerouac, Allen Ginsberg, Gregory Corso, Lawrence Ferlinghetti che rifiutavano il sogno americano, dei drop outs alle presi con i soliti problemi di alcolismo (e va ricordata assolutamente l´intervista della Pivano a Kerouac, visibilmente con la testa da un´altra parte) e personali. Una generazione che trovò il successo, non solo in patria, anni avanti rispetto a quella che era l´America alle prese con la guerra fredda. Romanzi come On the Road  di Kerouac, oppure la poesia Howl di Allen Ginsberg fanno ormai parte del programma di chi studia inglese e qui sono ovviamente tra i titoli con delle recitazioni degli autori stessi sovrapposte alla musica. Ci sono Kerouac in Cookin’ at the Continental, Allen in Howl ed ancora Gregory Corso e Lawrence Ferlinghetti, perfettamente amalgamati fra musiche che si ispirano al jazz più classico, come il brano di apertura e c´è la splendida performance di Elisabetta Antonini e del gruppo sul brano di Thelonious Monk Well You Needn´t, ma c´è anche il jazz della New York contemporanea, con atmosfere più aggressive e moderne, ad esempio LSD,  oppure atmosfere dolci e accattivanti quando la leader canta versi tratti da On the Road. Molto bella è la  versione di Blowin´in the Wind di Bob Dylan che diventa un jazz raffinato, un clarinetto liquido che accompagna la cantante in sottofondo e che sottolinea i versi è un´affermazione perentoria della classe esecutiva dei musicisti alle prese sì con del materiale della tradizione americana, ma ivi perfettamente a loro agio, personali nel modo in cui la rielaborano così che ne risultata un omaggio che ha tutti i numeri per restare fra i dischi più interessanti del catalogo Candid, la storica casa discografica che ha pubblicato nel passato alcune fra le opere più significative di Mingus e Max Roach. Accanto a Elisabetta Antonini ci sono Luca Mannutza al pianoforte, Paolino dalla Porta al contrabasso e Marcello Leonardi alla batteria. L´ospite Francesco Bearzatti arricchisce alcuni brani con i suoi pertinenti assoli al sax tenore ed al clarinetto.

Album Review

Ho ascoltato un fantastico omaggio alla Beat Generation e dire che questa incisione sia meravigliosa è assolutamente riduttivo. Questo è un disco pieno di musicalità, di una solida cognizione dell’era bebop, di una visione del jazz profonda e piena di sentimento.
- Sheila Jordan